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Il PLAY-BOY

Perché si è ucciso Luigi Tenco? Si è sparato, hanno detto, perché una sua canzone non era stata ammessa alla finale del festival. Una morte apparentemente contraddittoria per un giovane che tutti indicavano come il portabandiera dei cantautori di protesta e come tale in perpetua polemica con le sagre canore ufficiali e commerciali.
Ho parlato con Tenco una sola volta, qualche mese fa, in occasione di un movimentato dibattito in un circolo "beat" di Roma. Era un ragazzo antipatico, a prima vista, ma con una carica interiore notevole. Era aggressivo e sprezzante, però aveva un fondo di irrequietezza, di insoddisfazione, di insofferenza abbastanza autentico, rarissimo da trovare nei suoi colleghi della sua stessa o di diversa estrazione politica. Conosco cantautori impegnati, dall'una parte o dall'altra, che cambiano il nome delle canzoni a seconda dell'orientamento del pubblico che li ascolta. Tenco non era di questa razza.
Quel giorno un gruppo di capelloni lo aggredì, accusandolo di essersi venduto agli oppressori perché le sue canzoni, diffuse da una grande casa discografica, cominciavano ad avere successo e avrebbero fatto arricchire i "capitalisti". E lui per un po' li stette a sentire con la fronte che gli si aggrottava e con l'occhio che fremeva, ma poi esplose con una violenza bella a vedersi e ad ascoltarsi.
"Senti - gridò sulla faccia del capellone che faceva da accusatore - io spero di guadagnare un sacco di soldi con i miei dischi. E quando li avrò guadagnati non verrò certo a darli a voi, ma me li mangerò con le puttane. Hai capito?" Espressione e proposito che trovai meravigliosi, esaltanti, perché annullavano d'un colpo cento anni di chiacchiere. Quella sera capii subito che cosa era esattamente quel ragazzo: era un anarchico, uno splendido individualista.
Disse anche altre cose accettabili, espresse giudizi sarcastici su quelli che andavano in giro con il distintivo "Fate l'amore non la guerra", e infine concluse dicendo che del Vietnam alla gente in Italia non gliene fregava niente e perciò era molto più utile protestare per qualcosa di più concreto, correndo magari qualche rischio in più.
Quella sera sperai ardentemente che Tenco vendesse dischi a milioni di copie per poter realizzare le sue aspirazioni, principalmente quella di mangiarsi tutto con le puttane alla faccia dei puritani e di tutti i cretini.
A San Remo, Tenco aveva puntato tutto sul blu del suo vestito borghese, così diverso dai giubbotti e dai maglioni che era abituato a indossare. Ed invece proprio in quella sede ancora una volta la fortuna era toccata ai rivoluzionari fasulli, alle canzoni infarcite dei luoghi comuni di turno. La sua bella e malinconica canzone era stata esclusa.
"Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita, tutt'altro. Ma come atto di protesta contro un pubblico che manda "Io tu e le rose" in finale e una commissione che seleziona "La rivoluzione". Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi".
Questa è l'ultima lettera di Luigi Tenco. Secondo me è anche l'unica vera espressione di protesta della canzone italiana e se fossi un compositore la metterei in musica.



articolo tratto da "MEN" n.6 del febbraio 1967

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