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Il
PLAY-BOY Perché si è ucciso Luigi Tenco? Si
è sparato, hanno detto, perché una sua canzone non era stata ammessa
alla finale del festival. Una morte apparentemente contraddittoria per un giovane
che tutti indicavano come il portabandiera dei cantautori di protesta e come
tale in perpetua polemica con le sagre canore ufficiali e commerciali. Copyright © 2003-2004
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Ho parlato con Tenco una sola volta, qualche mese fa, in occasione di un movimentato
dibattito in un circolo "beat" di Roma. Era un ragazzo antipatico,
a prima vista, ma con una carica interiore notevole. Era aggressivo e sprezzante,
però aveva un fondo di irrequietezza, di insoddisfazione, di insofferenza
abbastanza autentico, rarissimo da trovare nei suoi colleghi della sua stessa
o di diversa estrazione politica. Conosco cantautori impegnati, dall'una parte
o dall'altra, che cambiano il nome delle canzoni a seconda dell'orientamento
del pubblico che li ascolta. Tenco non era di questa razza.
Quel giorno un gruppo di capelloni lo aggredì, accusandolo di essersi
venduto agli oppressori perché le sue canzoni, diffuse da una grande
casa discografica, cominciavano ad avere successo e avrebbero fatto arricchire
i "capitalisti". E lui per un po' li stette a sentire con la fronte
che gli si aggrottava e con l'occhio che fremeva, ma poi esplose con una violenza
bella a vedersi e ad ascoltarsi.
"Senti - gridò sulla faccia del capellone che faceva da accusatore
- io spero di guadagnare un sacco di soldi con i miei dischi. E quando li avrò
guadagnati non verrò certo a darli a voi, ma me li mangerò con
le puttane. Hai capito?" Espressione e proposito che trovai meravigliosi,
esaltanti, perché annullavano d'un colpo cento anni di chiacchiere. Quella
sera capii subito che cosa era esattamente quel ragazzo: era un anarchico, uno
splendido individualista.
Disse anche altre cose accettabili, espresse giudizi sarcastici su quelli che
andavano in giro con il distintivo "Fate l'amore non la guerra", e
infine concluse dicendo che del Vietnam alla gente in Italia non gliene fregava
niente e perciò era molto più utile protestare per qualcosa di
più concreto, correndo magari qualche rischio in più.
Quella sera sperai ardentemente che Tenco vendesse dischi a milioni di copie
per poter realizzare le sue aspirazioni, principalmente quella di mangiarsi
tutto con le puttane alla faccia dei puritani e di tutti i cretini.
A San Remo, Tenco aveva puntato tutto sul blu del suo vestito borghese, così
diverso dai giubbotti e dai maglioni che era abituato a indossare. Ed invece
proprio in quella sede ancora una volta la fortuna era toccata ai rivoluzionari
fasulli, alle canzoni infarcite dei luoghi comuni di turno. La sua bella e malinconica
canzone era stata esclusa.
"Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque
anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita,
tutt'altro. Ma come atto di protesta contro un pubblico che manda "Io tu
e le rose" in finale e una commissione che seleziona "La rivoluzione".
Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi".
Questa è l'ultima lettera di Luigi Tenco. Secondo me è anche l'unica
vera espressione di protesta della canzone italiana e se fossi un compositore
la metterei in musica.
articolo tratto da "MEN"
n.6 del febbraio 1967