di GIANCARLO
GRANZIERO
Quel pomeriggio
del 26 gennaio del 1967, a Sanremo c'erano le prove delle canzoni
e dei cantanti che alla sera si sarebbero misurati coi voti del
pubblico per accedere all'ambita finale. Con altri colleghi
dell'organizzazione della Rca (allora la major per antonomasia) e
di cui ero dipendente, dovevamo provvedere agli appuntamenti, con
la stampa, col regista dello spettacolo tv e altro, dei nostri
"protetti" cioè i protagonisti della kermesse canora.
Sembrava un giorno come un altro. Ma nell'aria qualcosa mi diceva
che forse non lo era: la presenza al festival di Luigi Tenco,
cantautore di grande rilevanza ma certamente non a suo agio con
una competizione commerciale com'era Sanremo, e con tutti i suoi
intrallazzi tra le quinte e negli alberghi che ospitavano i
discografici e il loro entourage. Ah, scusate se scrivo in prima
persona ma quella volta io c'ero. Per la prima volta, ma c'ero. E
ho vissuto tre giorni che non si possono dimenticare, nel bene e
nel male. Ennio Melis, il "rosso" come lo chiamavamo per
le sue simpatie di sinistra e direttore generale della Rca, ci
aveva avvisato: «Solita routine, ma tenete d'occhio Luigi (Tenco
n.d.r.). Non si sa mai cosa può fare». L'avvertimento non era
campato in aria. Tenco, umorale, carattere instabile, ombroso con
chi non gli andava a genio e anche con gli amici, era stato
letteralmente catapultato al Festival dalla Casa discografica che
gli aveva, in più, affibbiato una storia d'amore con Dalida, la
famosa vedette francese che avrebbe cantato in coppia con lui il
brano "Ciao amore ciao". La canzone era decisamente
bruttina, proprio da Sanremo, e Tenco ci credeva poco come lo
disturbava l'accanimento dei giornali sulla sua storia d'amore con
Dalida. Aggiungete l'emozione di partecipare al Festival. Il
tutto, faceva di Tenco una mina vagante nell'ambiente, in
superficie tutto sorrisi e abbracci e, sotto sotto, coltelli.
Torniamo a quel
pomeriggio del 26 gennaio. Finite le prove, transitate senza
problemi come al solito (qualcuno vuole interpretare la canzone
intera, qualche altro si limita ad accennarla badando più al
suono dell'orchestra), i ranghi si sciolgono. C'è un po' di tempo
per il relax. Tenco se ne va. Lo rivedrò all'inizio della serata.
È un momento importante per lui anche se non proprio adatto a un
cantautore. La canzone che ha portato al Festival non è certo
delle migliori, ma se vince (Dalida costituisce un grosso richiamo
internazionale) diventerà famoso. E di vincere, l'idea Tenco ce
l'aveva, come confessò a un giornalista poche ore prima. È il
momento di andare in scena: Luigi è scorbutico più del solito,
quasi assente, soffocato dallo smoking, probabilmente in stato
pre-confusionale. Lo si vede chiaramente. Mike Bongionro, il
presentatore del Festival, lo spinge a uscire. Tenco canta in
maniera atroce, per chi è abituato a sentirlo. Ripete il brano
Dalida: lei ci mette più calore (non per niente è di origine
calabrese) ma è gelida, non può fare di più. La canzone non
piace. Tenco lo sente, lo avverte dai fiacchi applausi, dall'aria
che tira. Poco tempo dopo arrivano i risultati delle votazioni del
pubblico esterno: "Ciao amore ciao" è ultima nelle
preferenze. In compenso sono state votate "Io, tu e le
rose" di Orietta Berti e "La rivoluzione" di Gianni
Pettenati. Nella scarabocchiata lettera d'addio prima del
suicidio, Luigi Tenco sembra prendersela soprattutto con queste
due canzoni e con il pubblico che non capisce. Ma non è
certamente solo questo il motivo del suicidio. So, da amici che
dopo la serata lo hanno seguito, che si è scolato almeno quattro
grappe e ha preso varie pastiglie. La Rca l'aveva invitato, con
Dalida, al ristorante "U Nostromu" per "festeggiare
la sconfitta", frase di dubbio gusto se qualcuno gliel'ha
riferita. Sono le quattro di mattina: una telefonata mi sveglia:
«Tenco si è ammazzato, riunione alle 8». È in ballo il
proseguimento della manifestazione, la Rai e i discografici cosa
faranno? La Rca non ha dubbi: si va avanti, la morte di Tenco è
un tragico incidente e nulla più. Vengo a sapere che Dalida ha
scoperto il cadavere, e tra le lacrime si è messa a chiamare
aiuto. Accorre Lucio Dalla, che aveva la stanza poco lontano,
sconvolto. Sono gli unici due che mostrano di capire a fondo la
tragedia. Ma, come si dice, "The show must go on".
Bongiorno, la sera dopo, si limita a un breve annuncio. Il
festival continua, verrà vinto da Claudo Villa e Iva Zanicchi con
la canzone "Non pensare a me". Quasi un epitaffio per
chi non c'è più.
Le indagini
vengono fatte velocemente: la pistola trovata accanto al corpo
(una Walter Pkk 7.65), risulta appartenere a Tenco. Nella camera
vengono trovate alcune bottigliette di sonniferi e cose del
genere. È un suicidio dovuto a un momento di depressione,
avvenuto senza testimoni. Ma la porta della camera 219 dell'hotel
Savoia, dove Tenco alloggiava, è risultata socchiusa, lo ha
confermato Dalida. Già circolano voci di "giallo"
seccamente smentito da Gino Paoli, che conosceva bene Luigi, e dal
funzionario di polizia, Molinari, al quale l'indagine è stata
affidata. Il 27 c'è il funerale: pochi assistono alle esequie,
pochissimi soprattutto i cantanti. Lello Bersani, giornalista Rai
e amico di Tenco, fa un servizio commosso sull'accaduto, la Rai
non lo manda in onda perchè "l'autore è troppo
emozionato". Viene trasmesso invece un commento "in
punta di penna" di Sergio Zavoli. La morte di Luigi (aveva 29
anni), dopo qualche tempo, viene accantonata. L'Italia ha altro
cui pensare, non certo a chi ha scritto canzoni stupende come
"Mi sono innamorato di te", "Cara maestra",
"Lontano lontano", "Se un giorno ti diranno",
"Un giorno dopo l'altro" per la popolare serie del
commissario Maigret. Luigi Tenco, esponente di punta della
"Scuola genovese" che annovera Paoli, De Andrè, Endrigo,
Lauzi, un movimento di autori-musicisti che ribalterà i canoni
tradizionali della canzone italiana (cuore, amore, mamma), viene
dimenticato. Ma rimane per lui un monumento musicale, la canzone
"Il poeta" di Bruno Lauzi, storia di un uomo scontroso,
schivo, che un giorno si uccide e "tutti dicono che era un
poeta/che sapeva parlare d'amore/cosa importa se al mondo uno
muore/lui piangeva e parlava di te". In questa storia,
soltanto uno non ha mai creduto al suicidio di Luigi: il fratello
maggiore Valentino che, col tempo, ha dovuto inchinarsi
all'evidenza. Nessun mistero dietro la morte di Luigi Tenco,
nessuna delusione amorosa, nessuna oppressione discografica.
Soltanto una grande, disperata solitudine interiore.
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