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E’ questo il vero Tenco? Copyright © 2003-2004
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articolo del 23/11/2004
Sotto lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, tra il 1763 e 1765, il torinese Giuseppe Baretti, direttore del quindicinale Frusta Letteraria, diventò celebre per le sue acute stroncature. Noi qui vogliamo essere altrettanto controcorrente.
Ah, le biografie! Già gli antichi sintetizzavano con un sospiro la scocciatura di dover leggere delle vite edulcorate, raccontate con enfasi e fantasia, manipolate abilmente a fini ideologici. Certo, le biografie appassionano, continuano a vendere, in Italia più che altrove forse per quel gusto innato del pettegolezzo che ci fa godere nel sentire sparlare di vivi e morti e che ammorba la stessa vita politica e sociale. Il problema è che in troppi cascano ancora in questo specchietto “editoriale” per le allodole. Forse una vita, per poterne scriverne, bisogna prima viverla; meglio allora le autobiografie. Fatto sta che purtroppo Luigi Tenco non ha avuto il tempo per farlo, è morto giovane, troppo giovane, rimanendo un mito per sempre. E’ proprio per questo che non bisogna, come gli avvoltoi, svolazzare sul suo cadavere , ormai putrefatto dopo trentasettanni forse a causa delle stesse maldicenze, per trarne solo giovamento personale o di gruppo.
Indubbiamente “Luigi Tenco” di Aldo Fegatelli Colonna (Mondadori) si presenta come una storia affascinante, con l’esplicita volontà di consegnare il personaggio alla storia del costume e della letteratura, quindi della cultura italiana ed europea, prima ancora che della musica leggera. Grande concentrazione, giustamente, sulla formazione adolescenziale del ragazzo, sulla sua volontà di portare una ventata nuova nel mondo della canzone. ma l’immagine che si vuol far passare è quella del rivoluzionario trasgressivo, di una specie di Che Guevara della musica. Avrebbe ammirato i jazzisti maledetti, quelli votati al satanismo e allo sballo-sbando conclamato. Si sarebbe votato al maledettismo in termini di trasgressività conclamata e volontà sicura di spezzare le catene imposte dalla società borghese. Ebbene, a noi non risulta, da altre fonti e dall’analisi dei suoi stessi testi, che Tenco intendesse la realtà e la musica in questa maniera; c’era anzi in lui un fondo di dolcezza e di atarassia antipolitica che rimane sostanzialmente il suo fascino più evidente, che ci permette tra l’altro di ascoltare ancora oggi i suoi pezzi senza provare quell’orticaria che ci fa venire la trincea di cantautori più votata all’alternativa negli anni Sessanta, Settanta ed Ottanta.
A fronte delle interessantissime “appendici” della seconda parte del libro, che ci introducono agli intriganti inediti, alle traduzioni e agli agganci poetici, risulta poco convincente anche la parte centrale della biografia, dedicata, con ampi apparati di impostazione criminologia alla querelle sul presunto omicidio come tesi opposta all’ufficiale suicidio. Il fatto che l’autore non arrivi, dopo un’accurata disanima, a delle effettive conclusioni lascia ancor più spiazzato il lettore, che avrebbe forse preferito non si parlasse neppure del problema, visto che è assolutamente irrisolvibile. Tenco come Pavese? Forse, ma l’approccio al personaggio non cambia secondo noi di molto se si sapesse la verità. quel che conta davvero è il messaggio più profondo delle sue canzoni, che rimane, nonostante tutte le manipolazioni possibili, uno dei più alti messaggi d’amore di un ‘epoca disperata.
articolo tratto da "LA PADANIAonline" nel Web