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Con un colpo di pistola alla tempia, Luigi Tenco, uno dei cantanti eliminati, si è tolto la vita - Voleva vincere, non ce l'ha fatta - Il cadavere scoperto da Dalida
SANREMO,27.
- «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perchè sono stanco della vita (tutt'altro!) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda «Io, tu e le rose» in finale, e una commissione che seleziona «La rivoluzione». Spero serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi».
Poi un colpo di pistola. Ventisette anni di ragazzo. Luigi Tenco. Si è tolto la vita perchè «Ciao amore, ciao», la sua canzone, era stata esclusa, subito la prima sera dal Festival della canzone. Tenco voleva vincere, non ce l'ha fatta. Mezz'ora dopo, verso le tre, un dirigente della R.C.A. telefona a Recco, a casa del cantautore: risponde la cognata. Il fratello Tino parte subito per Sanremo. Solo nella tarda mattinata la notizia è stata comunicata alla madre, 62 anni, sofferente per i postumi di una operazione: «Suo figlio è morto in un incidente automobilistico». «Non è possibile» ha mormorato la donna; e sviene. All'anziana signora in condizioni di salute precarie, non si è voluto rivelare la verità. Ma ricostruiamo i fatti.
Annuncio ufficiale. «Ciao amore, ciao» è stata eliminata.
Tutti badano ai grandi sconfitti, a Modugno, a Bobby Solo, a Connie Francis. Per l'esclusione di Dalida si commuove Radio Montecarlo. Di Luigi Tenco nessuno si occupa. Noi non lo sappiamo, ma lui pensa, anzi ora ha deciso: la pistola.
I cantanti della RCA hanno prenotato la cena post-festival in un ristorante caratteristico di Sanremo. Lo raggiungono alla spicciolata. Tenco si getta sulla macchina, una Giulia, carica la figlia di un giornalista, Angela Delli Ponti, e il marito dottor Zeppegno. Via, a grande velocità. Per poco non si sfascia contro un camion, un vigile è costretto a bloccarlo in curva. Arriva al ristorante. Scarica gli ospiti. «E tu non scendi?». «Non ho voglia di mangiare, non ho voglia di discutere. Lasciatemi andare. Torno in albergo, riposerò». Sono l'una e tre quarti.
Nessuno, credo, gli parlerà più. All'albergo imbocca le scalette verso il sotterraneo, entra nella stanza sul fianco della collina. Due letti, un armadio, un tavolo, un paio di sedie. Soltanto il suo letto è preparato a notte. Non lo tocca neppure. D'improvviso sembra tornato lucido, freddo. Una fredda pazzia. Ecco la pistola. Innesta il caricatore, la deposita sul comodino. Poi, accuratamente, tira fuori dal portacarte il foglio di carta bollata da quattrocento lire da cui chiaramente risulta dove e come ha comperato la rivoltella: «Armeria Moderna», a Roma, 24-11-'66, calibro 7.65 n. 5176000. Nessuno dovrà aver grane per lui con i carabinieri.
Mette ben bene in evidenza la carta, poi si siede al tavolino. Lentamente scrive: la spiegazione, l'addio. Alle 2,30 ha finito di scrivere ed è tutto finito. Nessuno nell'albergo ode il colpo di pistola. Crolla a terra, supino, fulminato. Alla tempia destra.
Nel salone centrale dell'hotel ci sono dei cantanti e alcuni giornalisti ai telefoni. Quiete assoluta: Sanremo è abituata al dopofestival, anche alle esclusioni clamorose. Soltanto Dalida, la «partner» di Tenco, è inquieta nella sua stanza al primo piano. Ad un tratto squilla il telefono. Dall'altro capo del filo la voce di Tenco: «Addio. Ora mi ammazzo». E lo sparo. Dalida, sconvolta, corre verso la stanza di Tenco. La porta non è chiusa, la luce è accesa — guarda, si china, si ritrae, inorridita, il vestito nero imbrattato di sangue. Corre fuori urlando: «Assassini! Siete tutti assassini!».
Gli altri particolari si perdono nei motivi della cronaca spicciola. Questo è il dramma di un giovane che non ha sopportato la più grossa delusione della sua vita.